Ep. 1 – Tassisti, preti e suicidi

Faccio il tassista da venticinque anni, e ogni tassista, se lo fa da tempo, ha qualcosa da raccontare. Eccovi già lì a pensare a rapine, prostitute, traffici illegali, storie losche, roba così. Niente di tutto questo. Era uno che è saltato sul mio taxi, un ragazzo triste. Che cazzo, stava piangendo da mezz’ora e non mi diceva dove voleva essere portato. È salito e ha chiesto se potevo aspettare un attimo. Io gli ho chiesto quanto e lui ha detto che non lo sapeva e io che accendevo il tassametro. Non è che sto fermo ad aspettare i tuoi comodi se per farlo devo rifiutare altre chiamate. Paghi, che cazzo! Scusate lo sfogo.
Stava lì ad aspettare, guardava un po’ il telefono e un po’ su, verso la casa, lo vedevo nello specchietto. Guardavo su anch’io per capire cosa gli interessava. C’era una lunga sfilza di finestre una sull’altra fino ai piani alti e al terzo piano una era illuminata. Ah, era notte, non l’avevo specificato. In questa finestra illuminata a volte appariva una testa che poi spariva: passava, si affacciava (e allora il ragazzo che avevo in macchina usciva dalla macchina) e poi tornava dentro (e il tizio faceva uguale). Un freddo, quel cazzo di avanti e indietro! Aveva la faccia smunta, pallida, gli occhi gonfi, le lacrime e singhiozzava forte.
«Metto un po’ di musica?», gli dico.
Non mi risponde, non mi sta ascoltando perché gli è arrivato un messaggio e io non mi faccio sfuggire l’occasione: ‘Smoke on the water’ vien fuori a caso dai miei altoparlanti, tanto hi-tech che non vi sto neanche a dire. A caso perché era una radio e non sapevo che avrebbero messo proprio quella canzone.
Ora, io non è che creda a quelle storie per cui abbiamo tutti un destino scritto e via dicendo, non credo neanche in Dio se è per questo, ma il punto è un altro. Cioè che quella canzone aveva un suo senso nella serata, un senso che poi avrei capito. Il testo non lo so e non so neanche l’inglese, so solo il titolo. ‘Fumo sull’acqua’ o qualcosa di simile (per la miseria, ho già detto che non so l’inglese) mi fa pensare a un incendio, e non solo perché so che il tizio dei Deep Purple l’ha scritta quando ha visto andare in fiamme il casinò di fronte all’albergo dove soggiornava. Sono cose che ti segnano, come quella che, nel mio piccolo, sarebbe successa a me, da lì a poco.

Il tizio è uscito dalla macchina con il telefono e io avrei tanto voluto che piovesse per dare più enfasi alla scena, o magari un po’ di neve, per ammorbidire il tutto – del resto, che cazzo, siamo a Natale, a Natale deve nevicare – e invece no, non pioveva e non nevicava. C’era solo un freddo cane e il tizio aveva addosso solo un maglioncino bordeaux da tramviere e un paio di jeans da fighetto – abbigliamento polivalente, il suo. Guarda su verso la finestra, fa dei gesti (un po’ melodrammatici, a mio parere), prova a telefonare: niente, torna dentro. Ha smesso di piangere, e riprende a scrivere sul cellulare.
Gli dico se vuole che andiamo e lui fa di no con la testa.
Senti, bello, io devo ancora mangiare, la mia ex-moglie mi ha messo un po’ di verdure cotte avanzate in un tupperware (sì, dice che devo smaltire un po’ di ciccia, ma a mezzanotte, appena stacco, vado a farmi una salamella al baracchino) e queste benedette verduracce conto di buttarle giù a un orario decente. Glielo dico in un modo gentile:
«Se non le dispiace, io metterei qualcosa sotto i denti», faccio anche il brillante.
Quello non dice niente e io esco, mangio, fumo e intanto guardo sul cellulare i risultati di stasera. Le partite non sono ancora finite ma non m’interessa: il derby è domani e io ho scommesso su quello. Scommetto con Giulio, il mio barista, quello che alle 6 di mattina, festivi compresi, sa che deve scaldarmi una brioche al pistacchio. E il cappuccio? Bello caldo con cacao, grazie, ma non c’entra con questa storia. Per la cronaca io sono milanista, perciò ho scommesso sulla vittoria del Milan, mentre Giulio, lui è interista e il gioco è bell’e fatto.

Mi accorgo dalla ripresa dei singhiozzi che la luce alla finestra si è spenta. Il tizio che piange non alza la testa dal telefono, lo guarda con stupore e dolore, e dopo un po’ mi fa cenno di andare, senza dirmi dove.
Ora, a me se c’è una cosa che odio è quando la gente fa i gesti al posto di parlare. Un conto è per mandarmi a fare nel culo, per quello basta il dito medio, ma se devi dirmi di andare devi usare la voce, e magari poi mi dici anche dove vuoi che vada.
Glielo chiedo, mi dà l’indirizzo, dice che è casa sua ma non gliel’ho chiesto e neanche mi interessa. Voglio solo mangiare, perché quelle due verdurine di merda invece che saziarmi mi hanno aperto lo stomaco.
In via Lodovico il Moro il traffico è scorrevole, viaggio con il Naviglio che scorre alla mia destra. Tra le rotaie del tram e la strada acciottolata, gli ammortizzatori faticano a tenere fermo l’abitacolo, ma la mia è una macchina superiore, non ve lo sto neanche a dire, e fa tutto con efficienza e grande soddisfazione da parte mia. Entro in una vietta trasversale e lascio il ragazzo davanti a un condominio che sembra nuovo, fatto da poco, ben tenuto, con tanto di portineria (chiusa, a quest’ora), giardino, fiori e i pioppi secchi. Un abete addobbato con robette fini e colori da signori sbuca dalla recinzione e le lucine si intravedono attraverso il cancello.
Gli dico quant’è la corsa, il tizio passa la carta e esce senza salutare. Gli dico di andare a fare nel culo, ma a bassa voce, e mi avvio piano. Nello specchietto lo vedo indugiare un po’ sul marciapiede con la testa bassa, il cellulare in mano, ed entrare in casa.
La serata è finita, me ne torno a casa anch’io dopo aver fatto visita al baracchino ed essermi mangiato un panino da 4 e 50 e una birra Adelscott, che bevo solo io al mondo e bevo solo perché ce l’hanno solo lì.
E le fiamme, direte voi? E il fumo sull’acqua? Adesso ci arriviamo.

Il giorno dopo sono ancora in quella zona, porto un prete che aveva problemi con la sua macchina e, visto che tanto paga la curia, ci va in taxi oggi a benedire le case. Sale davanti, dietro il chierichetto. Ci credete che mi ha prenotato tutta la mattina? Abbiamo pattuito duecento euro, forfettario. Mi ci sarei pagato la revisione della caldaia, che ancora non mi ero deciso a farla. Solo che non riusciamo a benedire più di due case, e quei duecento non li vedrò mai.
Il prete è un chiacchierone, non sta zitto un attimo. Parliamo un bel po’, o meglio lui parla e io ascolto e di tanto in tanto intervengo. Dice che è una missione portare il bene di Dio nelle famiglie, ed è una missione che fa sempre, ma a Natale la gente sembra più ricettiva se gli parli di Dio (ma soprattutto di offerte, aggiungerei), perciò bla bla bla.
A me non me ne frega molto di questa storia. Ve l’ho detto, non credo in Dio e non ci credo anche per non dover badare a certe questioni, sul bene e sul male, o sul perché siamo al mondo o perché alla radio mettono canzoni che si confondono con la storia, entrandoci a far parte. Come quella di prima, Smoke on the water. 
Ho accostato vicino a una palazzo e loro sono scesi. Il prete ha citofonato, ha aspettato un minuto, ha tracciato una riga sul suo taccuino, poi ha suonato a un altro nome e niente, altra riga. L’ha fatto un po’ di volte, finché una signora del primo piano non gli ha aperto. Sono entrati e sono rimasti dentro una mezz’ora, e alla fine il prete è uscito sorridente col chierichetto che gli saltellava di fianco. Gli ho chiesto se era andata bene, lui mi ha risposto “come Dio ha voluto” e mi ha dato un altro indirizzo, lì a fianco. Non immaginerete mai qual era la casa che doveva benedire adesso. Ok, avete indovinato: quella del ragazzo, il tizio triste della sera prima. Anche qui ho parcheggiato sotto.

In questi casi non sai mai di chi è la colpa, se qualcuno ne ha una. Non sai mai chi o che cosa può trasformare un bambino in un micidiale killer. Se la portinaia, che eccitata dalla presenza del don insiste che il rito della citofonata abbia luogo, se il bambino che insiste per essere lui a suonare il citofono, se il prete che nel 2020 insiste ad assolvere a un assioma medievale. O se il coglione all’ultimo piano, che per suicidarsi ha scelto di riempirsi l’appartamento di gas. Non sai mai di chi è la colpa, e non t’importa nemmeno. Te ne fai una ragione, un’altra riga sul taccuino del prete e qual è la prossima casa?
Io non posso sapere di chi è la colpa e non lo saprò mai: ve l’ho detto, non mi occupo di queste cose. Io, mentre gli altri cercavano di addossarsela l’uno con l’altro, mi godevo lo spettacolo della coltre di fumo scuro che sfiorava la pelle scabra del Naviglio. Chissà cos’aveva fatto il Milan.

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